Vittimismo e manipolazione

Vittimismo e manipolazione

Il vittimismo ha una natura manipolatoria, è un potere che si esercita nei confronti dell’altro per sgravarsi da qualsiasi responsabilità nei confronti di se stessi, facendo sentire l’altro responsabile della propria vita, della propria felicità e della propria sofferenza. Attraverso la manipolazione si cerca la complicità dell’altro per giustificarsi e darsi ragione, senza mai guardare dentro se stessi, rimanendo immuni da qualsiasi riflessione circa il proprio agire, mettendo l’altro nella condizione di non poter dire nulla che sia contrario alla propria tesi vittimistica e se osa farlo lo si accusa di non comprendere la propria sofferenza. In realtà la persona che si mette in un atteggiamento vittimistico non sta cercando la vicinanza dell’altro e neanche di capire la propria sofferenza ma vuole soltanto che l’altro la rinforzi nella visione vittimistica che ha di sé.

La tendenza a cadere nella manipolazione è frequente in chi si sente subito colpevole se non corrisponde alle richieste altrui, mosso dal bisogno di sentirsi “buono” secondo ciò che comunemente viene ritenuto essere l’aiuto all’altro, invece di vedere che il problema consiste in una sua eccessiva accondiscendenza. La persona si sente colpevole se non aiuta chi si mette nel ruolo della vittima, ma in realtà questo non è aiuto vero ma è assecondare solo l’altro nel suo vittimismo, è cedere alla sua manipolazione. Si aiuta veramente l’altro se non lo si asseconda nel suo vittimismo, perché non dandogli la complicità che cerca si può stimolare la sua parte più adulta, mentre cedendo alla manipolazione si favorisce soltanto la sua parte immatura, deresponsabilizzata. La persona che si mette nel ruolo della vittima si esonera da qualsiasi carico di responsabilità nei confronti della sua vita ed è pronta ad incolpare di insensibilità chiunque non la consideri solo come una povera vittima da sorreggere e giustificare visto che a lei spetta soltanto essere consolata, capita. La manipolazione consiste nel far sentire cattivo chiunque non le dia conforto e conferma nel suo essere vittima e non sia disposto a provvedere a lei, assumendosi al suo posto la responsabilità che non è disposta a prendersi nei confronti di se stessa e della sua vita.

Il vittimismo è il potere perfetto: è totalmente deresponsabilizzato, non deve rispondere a niente, si sente in diritto di chiedere qualunque cosa perchè ogni tentativo dell’altro di non cedere alla pretesa che avanza viene letto sempre in modo vittimistico come un danno subito, come qualcosa che viene ingiustamente sottratto, tolto e dunque da rivendicare con più forza. La persona se non viene sorretta nella sua tesi vittimistica si sente subito attaccata ingiustamente, non compresa. Uscire dalla sua narrazione, dal suo copione che la vede solo vittima degli eventi e degli errori altrui, per invitarla ad una riflessione su se stessa, sulla necessità di conoscersi, di comprendere il modo in cui ha costruito la sua vita viene letto vittimisticamente come un torto ingiusto, è un farle subire ulteriore danno, è infliggerle ulteriore sofferenza perché anche la sofferenza è vissuta in termini vittimistici. La sofferenza, lontana dall’essere considerata il frutto di una iniziativa della propria interiorità con l’intento costruttivo di prendere consapevolezza di alcune parti di se stessi che hanno portato a distaccarsi dal proprio mondo interiore, viene considerata vittimisticamente come un danno ingiustamente patito per opera di altri.

La riflessione, il riferire a sé la propria vicenda esistenziale, cercando nell’assenza di legame con la propria interiorità le ragioni del proprio malessere, invece di incolpare l’esterno, viene percepita e tradotta in termini vittimistici. In questa interpretazione vittimistica la riflessione, che mette se stessi al centro dell’analisi, da strumento di conoscenza, di consapevolezza, quale è, diventa un torto subito, quasi un oltraggio alla propria persona. Ogni cosa viene tradotta in termini vittimistici, come se la spinta dell’interiorità a guardare dentro se stessi senza tacersi delle verità scomode non fosse mai positiva, ma qualcosa di negativo che danneggia e offende. La riflessione, che è la spinta più costruttiva alla crescita, alla maturazione di consapevolezza, viene vista in termini negativi, vittimistici come un danno subito, un giudizio ingiusto nei confronti di se stessi. Nella visione vittimistica non esiste un’interiorità che spinge da dentro e che è capace di prendere l’iniziativa di richiamare la persona ad aprire un confronto con se stessa, non c’è alcuna apertura alla dialettica interna, al dialogo con la propria interiorità, ritenuta solo un oggetto leso da fattori esterni. Nel vittimismo è come se non esistesse nulla di sé che abbia agito nella propria vicenda esistenziale, niente di proprio da vedere e riconoscere nelle proprie azioni, nessuna spinta interna da analizzare e di cui farsi carico chiedendo a se stessi da cosa si è mossi nel proprio agire, ma c’è solo il subire un torto e il lamentare ciò che si è subito. Fondamentalmente il vittimismo è il lamento, è una palude che risucchia ogni iniziativa interiore che voglia capire, vedere il vero di sé per prendere in mano la propria vita. Il vittimismo è il rifiuto alla dialettica interna, la persona si sottrae al confronto con la propria interiorità e sposta il focus all’esterno su altro o altri.

La persona non svolgendo alcuna riflessione su se stessa, che non sia la sua autonarrazione in cui tutto dipende da delle cause esterne a sé, non è consapevole di ciò che la muove nei confronti dell’altro e della natura della sua richiesta, che è di tipo dipendente. La persona sta facendo una richiesta di natura dipendente, cerca nell’altro ciò che non sta cercando dentro se stessa. Attribuisce ogni mancanza all’altro senza accorgersi che ciò che le manca è la costruzione di qualcosa di proprio, è l’impegno nella propria crescita, che sta cercando di eludere facendo sentire responsabile l’altro della propria vita e del proprio stato di benessere. E’ una persona non vuole prendersi la responsabilità della sua vita e cerca attraverso la richiesta dipendente di supplire a ciò che non ha costruito con se stessa. Assecondarla nel suo vittimismo è controproducente perché si asseconda soltanto il suo voler rimanere dipendente dall’esterno. A volte aiutare veramente qualcuno è non cedere alla sua richiesta quando è una pretesa dipendente, è rendersi in apparenza “cattivi” secondo quanto recita il copione vittimistico, ma in realtà profondamente vicini a ciò che sta accadendo nella realtà interiore dell’altro…

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