Fuggire

La tendenza comune è fuggire da stati interiori difficili, che creano tensione, emozioni sofferte che premono da dentro per essere ascoltate. Sono stati interiori difficili che vogliono segnalare un problema, favorendo la presa di coscienza di aspetti di sé critici, atteggiamenti e modi di vivere che stanno alimentando il malessere e che rischiano di essere agiti inconsapevolmente. C’è un richiamo interiore ad occuparsi di sé ma la tendenza è fuggire dal problema, negarlo, non affrontarlo. Si pensa che sia la scelta a sé più favorevole perché nell’immediatezza ci si sgrava dal peso scomodo che non si vuole né sentire, né vedere. Questo calcolo di comodo nell’immediatezza sembra pagare, ma in realtà ci si incastra sempre di più nel problema, lo si subisce sempre di più. Il gesto apparentemente liberatorio infatti non è l’affrancamento vero dal problema, che richiederebbe il prenderne contatto, attraverso l’ascolto e il dialogo con la propria interiorità, ma si traduce in un agito impulsivo. L’immediatezza dell’apparente sollievo equivale ad una modalità impulsiva perché si scarica il problema, si scarica la tensione, spesso sfogandola o tacitandola. La persona non riesce a tenere su di sé il problema, a contenerlo, a reggere la tensione, ma agisce delle parti di se stessa irrisolte, senza consapevolezza.

La persona non essendo disposta a guardare degli aspetti di sé difficili da riconoscere e accettare, una riflessione che teme come fosse una cosa nociva da rifuggire, traduce nell’immediatezza quello che crede di avere compreso di se stessa, del suo sentire. In realtà in questo modo il sentire non viene mai ascoltato nè compreso, ma viene decodificato nell’immediatezza secondo una attribuzione di significati che non derivano da una elaborazione interiore, propria, ma da ciò che impulsivamente la persona crede di avere capito di sé, facendo eco alle spiegazioni dominanti, che si limita a ripetere, dandole per scontate. La persona dà per scontato molto di sé, dei suoi atteggiamenti, dei suoi modi di vivere, rimanendo spesso nell’inconsapevolezza che si sta muovendo in disaccordo con la sua parte profonda, con ciò che profondamente le appartiene.

Vive nell’immediatezza dell’agito perché è abituata a una presa rapida sulle cose invece di costruire qualcosa di suo, a partire dal dialogo con la propria dimensione interiore. In modo altrettanto facile e immediato vuole sbarazzarsi di ciò che non le fa comodo, senza rendersi conto che si sbarazza di elaborazioni profonde che sono le basi interiori che le permetterebbero di sviluppare la capacità di pensare, di formare una sua parola e di dialogare, di decidere di sè. Le emozioni, anche quando diventano difficili, servono per formare una propria consapevolezza, un proprio pensiero. Se le si scarica fuori pensando che sia utile liberarsi da questi vissuti spiacevoli, invece di formare consapevolezza, pensiero, parola, si traducono in atto delle idee prese da fuori. Affinchè si sviluppi il pensiero e, da lì, la parola è necessario rimanere in contatto con le emozioni, accogliendole senza fuggirle, altrimenti quella che si ritiene la parola è solo una traduzione rapida di qualcosa di mai realmente compreso. Quella che si pensa la parola è spesso solo un modo di portare fuori il problema, di sfogarlo, in una ricerca di conferme, di rassicurazioni, di soluzioni facili. Nel tentativo di uscire immediato dal problema, evitando il confronto con se stessi, ci si condanna a ripeterlo continuamente, ci si ritrova sempre nella stessa situazione, sempre più impotenti. Si ripete la stessa modalità senza mai uscirne proprio nel momento in cui si cerca la soluzione immediata che, essendo carica di impulsività, rende sempre più inermi, passivi, inconsapevoli. Per affrontare veramente un problema serve entrare nel problema stesso, aprendo il confronto con la propria interiorità sui nodi critici della propria vita, non cercare la via di fuga, che è solo illusoria.

Uscirne, liberarsene, superare, sconfiggere, prendere di petto il problema, spesso significa non affrontarlo, si tratta di atteggiamenti di fuga, di chi non è disposto a fermarsi, a sviluppare la capacità di dialogo e incontro con la propria interiorità. Affrontare veramente significa stare in contatto, accogliere, per poter poi solo successivamente agire sulla base di un pensiero formato, di un dialogo, di una parola. Altrimenti è impulsività, è una parola che non viene mai formata, ma viene tradotta in un’azione inconsapevole, destinata a ripetere incessantemente ciò che di sé non ha mai trovato un canale dialogico. Si agisce subito sul piano concreto come a voler prendere di petto il problema, ma in realtà lo si elude, si scappa e spesso lo si fa inseguendo soluzioni pronto uso, di facile sollievo. Queste soluzioni sembrano risollevare le proprie sorti, spesso sono a stampo evasivo, dei “ contentini” per tirarsi un po’ sù, dei riempitivi. A volte si inseguono delle soluzioni salvifiche che sembrano promettere di apportare il grande cambiamento alla propria vita, mentre in realtà sono solo delle soluzioni per non affrontare la realtà. Ci si può legare a doppio filo con soluzioni che sembrano magicamente risolvere tutto, mentre rischiano solo di fare cadere nella dipendenza. Si crede protettivo questo atteggiamento, un trarsi in salvo da qualcosa che si ritiene pericoloso. Il punto è che si pensa che il nemico siano le proprie emozioni e ci si difende da esse, e così ci si distacca dal proprio mondo interiore, ci si chiude in meccanismi difensivi a volte complessi, perché laddove è l’impulsività a dilagare frequentemente ci sarà un eccesso di controllo, sotto svariate forme, non ultimo l’eccesso di razionalizzazione, che non c’entra nulla con la riflessione.

Si crede protettivo spegnere, eliminare le tensioni emotive perché è rassicurante. La risposta che cerca la rassicurazione e il conforto, al posto di ascoltare quello che l’emozione sta cercando di portare alla luce, tiene la persona nella condizione regressiva di chi non riesce a dialogare con le proprie emozioni, di chi non riesce a formare consapevolezza, pensiero e parola, ma si attacca semplicemente a qualcosa d’esterno, di rassicurante, che allenti subito la sua tensione emotiva. Ci si può attaccare al cibo, ai vestiti, alla tecnologia e a molto altro o usare la relazione come via di fuga dalle proprie emozioni. Di fronte a una tensione emotiva si cerca subito qualcosa da prendere e a cui attaccarsi, una sorta di biberon da succhiare invece di sviluppare la capacità di entrare in rapporto con le emozioni sviluppando così la capacità di dialogo, di parola. D’altra parte quando parliamo di protezione parliamo di una funzione materna, una capacità di prendersi cura di sé, ma spesso il materno che si esercita nei confronti di se stessi è questo materno che fornisce subito un rapido sollievo, che nega il problema, soprattutto che scarica ogni responsabilità sull’esterno senza mai impegnare la persona su se stessa, sui nodi critici della sua vita. In questo modo si rimane lì senza maturare e quando ci si trova di fronte ai nodi problematici della propria vita invece di sviluppare la capacità di entrare in dialogo con il proprio mondo interiore, si succhia il biberon di questo materno apparentemente benefico e si nega, fuggendo ogni responsabilità. Questo materno pensa che evitare di sentire sensazioni dolorose, spiacevoli, sia a sé favorevole e che ogni riflessione che porti in contatto con parti di sé spiacevoli vada evitata, ritenendola dannosa. Si preoccupa subito di scacciarla, di eliminare il sentire disagevole, di appianarlo con tesi vittimistiche di vario tipo che spostano sempre il focus del problema altrove, permettendo la fuga incessante da se stessi. Questo atteggiamento traduce il pregiudizio comune che vede nelle emozioni qualcosa di insopportabile, insostenibile, dannoso, da cui proteggersi.

Quando si è in questo atteggiamento, ritenuto erroneamente protettivo, si pensa di rimanere sopraffatti se si rimane nel sentire spiacevole, in contatto con la sofferenza. In realtà è l’impulsività a fare dilagare dentro di sé il problema, che non trova più argine nella riflessione. I passaggi interiori sofferti fanno maturare la consapevolezza, anche se costringono a fermarsi. Rappresentano proprio il freno a un’azione problematica, che la persona rischia di continuare a ripetere. La sofferenza non è soverchiante ma è protettiva perché contiene, ferma una azione che è problematica. I segnali interiori di sofferenza, lungi dall’essere qualcosa di dannoso, sono un argine ad una azione che si sta perpetuando a proprio danno. Impediscono d’agire, di portare avanti atteggiamenti, modalità di vivere che stanno creando malessere e di cui la persona è inconsapevole. La costringono a fermarsi, a prendere consapevolezza, per non far dilagare ulteriormente delle sue parti problematiche. Quel materno sopra descritto, apparentemente buono e protettivo invece le lascia dilagare, non oppone nulla, perché continua a dire che “va tutto bene” e che la persona non ha alcuna responsabilità nella sua vita, condannandola ad agiti impulsivi di cui non riesce a comprendere la criticità. La riflessione viene bandita come una cosa dannosa perché non sostiene delle tesi di comodo, le fa crollare. Il crollo è doloroso, e non di immediata comprensione visto che la persona è attaccata spesso da molto tempo a queste modalità di vita, ma è protettivo perché l’interiorità vuol fare cadere delle modalità che stanno alimentando malessere. Il problema non è dunque l’azione destabilizzante dell’interiorità, che è sempre protettiva, ma è continuare ad agire impulsivamente, senza alcun freno riflessivo, delle modalità esistenziale che stanno creando un disaccordo e una disunione da sé. E’ l’impulsività che tiene dentro il problema, lo lascia irrisolto, anche se nell’immediatezza sembra liberatoria. Viceversa l’azione protettiva è quella che sa contrastare, che invece di tenere in piedi fa cadere equilibri esistenziali fragili perché non fondati interiormente, anche se nell’immediatezza questo comporta passare attraverso vissuti sofferti, ma sempre generativi e costruttivi…

 

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