Quando si parla di rapporto con se stessi sono molte le attribuzioni negative, una di queste è proprio l’egoismo. Si tratta di una presa di posizione preconcetta e astratta, spesso ideologica, che non tiene conto che il modo in cui una persona entra in rapporto con se stessa è decisivo per la maturità con cui può porsi in rapporto all’altro. Se la persona non ha alimentato il rapporto con se stessa, sviluppando la capacità d’incontro e dialogo con il suo mondo interiore, non potrà, se non in una maniera del tutto astratta e idealizzata, disporre di una capacità d’incontro e condivisione con l’altro, ma più realisticamente porterà nel rapporto le problematiche irrisolte che ha con se stessa, a partire dall’immaturità nel modo di entrare in rapporto con le emozioni. Il cercare tutto fuori, la ricerca dell’altro prima di se stessi, più che da altruismo o desiderio di condivisione è mossa da una tendenza molto comune a cercare fuori quello che non si sta cercando dentro se stessi.
Mettere l’altro al centro della propria vita non è altruismo, se non in astratto e idealmente, perché se la persona non ha il centro dentro se stessa, grazie alla maturazione di un rapporto con la sua dimensione interiore, si appoggia all’altro in modo dipendente con tutte le pretese e recriminazioni che questo atteggiamento comporta, molto lontane, se si vuole guardare al di là dell’idealizzazione, da ciò che è autenticamente spassionato e altruistico. Per poter dare e condividere occorre che la persona sia ricca di se stessa grazie alla maturazione del rapporto con il suo mondo interiore, altrimenti cercherà in maniera dipendente nell’altro la soluzione alla mancata maturazione di un rapporto con sé. Più che di altruismo in molti casi si tratta di una fuga perché la persona viene meno a se stessa, alla responsabilità della sua crescita e realizzazione, nascondendosi nella relazione, investendo totalmente in essa.
Quando la persona non ha costruito un rapporto con se stessa, alimentando il senso di sé e della sua realizzazione nel terreno della sua interiorità, ha appena al di sotto dell’apparenza, di ciò che sembra in superficie, un vuoto del suo essere, rimasto incompiuto, perché non coltivato interiormente. E’ un senso di mancanza che è un richiamo potente a riallacciare il rapporto con la propria interiorità, ma che spesso la persona non riconosce come tale, perché pensa che ciò che le manca sia il contatto con l’altro, senza rendersi conto che senza un radicamento a sé non può, se non idealmente, stabilire un contatto con l’altro, ma più realisticamente cercherà una strategia per non sentire il vuoto di sé e la sofferenza che ne consegue. Una strategia che non può certo favorire il contatto e la relazione perché cerca di anestetizzare le emozioni, di rendersi insensibili alla sofferenza dovuta alla mancanza di legame con la propria dimensione interiore.
La dedizione all’altro, il venire meno a se stessi fino all’annientarsi per l’altro, sono mezzi per sentirsi utili riempiendo il senso di vuoto dovuto alla mancata costruzione di qualcosa di proprio, di corrispondente a sè. E’ un vuoto che la persona cerca di anestetizzare, di non sentire occupandosi dell’altro, dandosi senza limiti nella relazione. In questa fuga nella relazione, nell’ideale altruistico, non ci può essere altruismo autentico ma una maschera per non vedere e non sentire. Quella maschera vive dell’altro, del suo bisogno che la fa sentire indispensabile, della sua approvazione che la fa sentire di valore. La persona mette pertanto davanti a se stessa i bisogni dell’altro per cercare in questo modo di trovare convalide del suo valore, che ha costruito all’esterno invece che a partire da sé. La persona ha costruito il senso di sé su idee di valore prese dall’esterno, che nel momento in cui assolutizzano il valore della dedizione all’altro, slegandola dalla realtà interiore, la fanno diventare una “cura materna” che favorisce una infantilizzazione e una dipendenza della relazione. Questo valore della cura dell’altro, così assolutizzato, slegato dalla realtà interiore e dall’altro, a cui si rivolge solo idealmente, risponde più che altro a un proprio bisogno irrisolto di autostima. La persona vive la relazione con questa funzione, l’altro la deve far sentire importante, indispensabile. Non cerca l’intimità con l’altro ma il riconoscimento e l’apprezzamento che gli dimostra, lusingandola, convalidandola nel senso di sé. Spesso nelle relazioni il legame autentico soffre proprio perché la persona non è legata a se stessa e non disponendo di una base solida dentro di sé cerca nell’altro un rinforzo della sua autostima, tutta fondata sul come appare ai suoi occhi e dunque sulla sua parte egoica.
L’egocentrismo si sviluppa proprio se la persona ha questo slancio meramente ideale e astratto verso l’altro senza essere legata a sé. Senza un rapporto con se stessi, con la propria dimensione interiore, la persona diventa infatti inevitabilmente egocentrica perché ha bisogno di stare al centro delle attenzioni e dello sguardo dell’altro visto che su di esso ha costruito il senso di sé anziché sul rapporto con la propria dimensione profonda. Se si vuole costruire una relazione disinteressata, in cui non si chiede all’altro di supplire a ciò che non si è costruito e fatto maturare dentro di sé, il rapporto con se stessi diventa indispensabile, a garanzia che il rapporto non sia basato sull’egoismo ma sull’incontro di due individui. La valorizzazione dell’altro come individuo, la valorizzazione della sua crescita a prescindere da sé, in maniera spassionata e non dipendente, è possibile solo se la persona rispetta e riconosce in primo luogo il suo essere individuo favorendo la crescita e la cura del rapporto con la sua dimensione interiore…