Generalmente si pensa al sintomo, come l’ansia o le altre manifestazioni di sofferenza interiore, come a qualcosa di invalidante, una alterazione priva di significato che ostacola inutilmente la propria vita. La persona vive il sintomo come qualcosa che la condiziona, che la invalida, togliendole la libertà. Pensa che ritroverà la libertà nell’eliminare il sintomo e non sa che il rendersi libera non è nel fuggire questi vissuti sofferti, anzi in questa fuga dalle tensioni interne risiede il problema, perché è questo atteggiamento che non le ha permesso di sviluppare la capacità di entrare in rapporto e in dialogo con il suo mondo interiore, reggendone le tensioni dialettiche e trasformative. La persona è fuggita dal carico di responsabilità che la maturazione del rapporto con il proprio mondo interiore comporta, perché è un carico di consapevolezza spesso scomodo rispetto al darsi delle spiegazioni accomodanti, senza sostenere il confronto con l’interiorità. Si tratta del carico fondamentale da saper reggere perché è quello della propria crescita e autonomia. L’aver vissuto al di fuori della dialettica interiore l’ha privata della capacità di trovare attraverso il dialogo con la sua interiorità, reggendone le tensioni dialettiche, le soluzioni alla sua esistenza, che sono rimaste affidate a delle soluzioni esterne, acriticamente e automaticamente ripetute, perché prive di ogni confronto dialettico, critico, con il proprio mondo interiore. Sono queste soluzioni esterne, diventate modalità esistenziali all’insegna della difesa dall’interiorità, del tenerla a bada, il vero ostacolo e limite da cui è fondamentale rendersi liberi e il sintomo è proprio la spinta a tale affrancamento, spesso non facile perché sono modalità che si strutturano in difese sempre più rigide.
Le chiamo difese perché l’atteggiamento della persona è volto a proteggersi dalla propria interiorità, diventata il nemico giurato, spesso chiedendo ad altri o ad altro di lenire, di supplire, di sollevarla dalle sue tensioni interne irrisolte, rimanendo così estremamente immatura nel confronto con le sue emozioni, che diventano solo qualcosa da sopire, dandosi pronto sollievo in modalità esistenziali improntate alla dipendenza e al controllo. Nella dipendenza predomina la passività perché la persona demanda ad altri il compito di risolvere i suoi nodi problematici, aiutandola a scappare e a proteggersi dal suo mondo interno, invece di sviluppare la capacità di entrare in rapporto con le sue emozioni. Il controllo le fa assumere un ruolo all’apparenza più attivo, ma che in realtà è manipolatorio sulle emozioni. E’ un controllo che cerca di dirigere, di incanalare le emozioni dentro binari rigidi, definizioni e regole prese dall’esterno, attraverso cui la persona cerca di trovare un senso di padronanza nei confronti di ciò che non conosce. La dipendenza e il controllo rigido sono le stampelle, le protesi più utilizzate per supplire l’assenza di contatto con il proprio mondo interiore. Sono difese perché spesso si strutturano in maschere assai rigide che servono a nascondere la mancanza di rapporto e di padronanza di sé. Sono queste modalità esistenziali problematiche attraverso cui la persona ha rifiutato il rapporto con il proprio mondo interiore a tenere in scacco la sua vita. Il disagio psicologico ha alla base questo rifiuto al dialogo con la propria interiorità, l’alienazione da sé della tensione che l’assunzione responsabile della propria vita necessariamente comporta.
Questo modo di vivere ha delle conseguenze perché il non essere partecipi della propria vicenda interna, il non farla propria per comprendersi, traendo dal suo svolgersi le guide di conoscenza per guidarsi, impedisce alla persona di sviluppare una capacità di autogoverno sulla sua esistenza. E’ solo sviluppando il dialogo con la propria dimensione interiore che si impara a reggere la tensione del confronto che essa comporta, facendo diventare questi momenti dialettici la matrice generativa delle proprie idee, di ciò che si conosce e di cui si è consapevoli. La tensione dialettica diventa il terreno di costruzione del proprio pensiero, della propria visione delle cose, della propria autonomia. Il disagio psicologico si sviluppa nel momento in cui l’interiorità viene messa a tacere, interrompendo ogni dialettica interna, perché in quel momento la persona perde qualsiasi riferimento dentro se stessa e il suo mondo interiore anziché la guida del suo agire diventa qualcosa di sconosciuto che non riesce a comprendere e dunque, ai suoi occhi, imprevedibile. La persona che ha interrotto il dialogo con la sua interiorità si difende da essa come se fosse qualcosa di minaccioso perché non ha sviluppato la capacità di entrare in rapporto con se stessa. Mancando di un rapporto con il suo mondo interiore, è priva della guida che esso può fornirle, si sente persa, in balia di ciò che non ha imparato a conoscere. E’ in balia di qualcosa che non ha fatto suo, che non ha riconosciuto come quella parte di se stessa capace di formare conoscenza e guide per dirigersi autonomamente, alienandola da sé. Ha bisogno di recuperarla a sé, riconoscendo nel suo mondo interiore la capacità di essere la base per formare la sua conoscenza, la sua identità, perché è esso il nucleo generativo della sua autonomia.
E’ la mancanza di questo rapporto ad essere invalidante e a creare disagio perché come detto sopra la persona compensa questa assenza di rapporto attraverso atteggiamenti che possono diventare estremamente problematici. Mancando di un riferimento dentro di sé cerca al di fuori qualcosa che le dia una guida per dirigersi, per capirsi, dentro un atteggiamento che rischia di strutturarsi sempre più difensivamente nei confronti della sua interiorità. Chiede all’esterno una protezione affidandosi a dei modi comuni di pensare che dovrebbero fornirle quelle guide per orientarsi che non ha tratto dentro se stessa, perdendo così la capacità decisionale sulla sua vita che diventa sempre più condizionata da modi di pensare estranei a sè. E’ questa modalità difensiva che la condiziona sempre di più facendole perdere autonomia e libertà. Supplisce alla mancanza di punti di riferimento interni, di una identità costruita a partire da sé, con delle soluzioni esterne che mascherano questa mancanza e le danno un senso illusorio di padronanza di sè. Entra in questo atteggiamento difensivo, che le fa da maschera e scudo rispetto a ciò che le manca di sé come capacità propria di guida e di pensiero, nonché di formazione di identità personale. In realtà si tratta di soluzioni che cercano solo di vicariare una mancanza di autogoverno e padronanza vera di sé, che può nascere solo se si è aperti alla dialettica interiore. Sono soluzioni rigide, stampelle estremamente problematiche, che se danno l’illusione di muoversi non è certo perché si è liberi ma perché si sta supplendo a quella che è l’invalidità vera, l’aver perso il rapporto con la propria interiorità. Il sintomo ha la finalità di voler recuperare il legame con la propria dimensione interiore mostrando che l’invalidità risiede in questi modi di vivere che cercano solo di mascherare, di vicariare ciò che non si è sviluppato dentro di sé. La sua finalità è costruttiva perché vuole permettere di riprendere in mano la propria vita sviluppando ciò che manca, il rapporto e il dialogo con la propria interiorità…