In molti vanno dallo psicologo o dallo psicoterapeuta per tornare a essere “normali”. Si pensa che il ruolo dello psicoterapeuta sia quello di aiutare la persona a rientrare in quello che si considera il normale modo di vivere, di sentire e di essere, nella convinzione che vivere come gli altri sia quello che permetterà di sentirsi meglio. Si pensa che si tornerà a stare bene nella misura in cui si riusciranno a fare le cose che fanno tutti, a reagire come fanno tutti, a volere quello che vogliono tutti, come se il problema alla base della propria sofferenza consistesse nel non riuscire a fare quello che gli altri fanno. La convinzione è quella che ci sia un guasto, un impedimento, un blocco che preclude alla persona di raggiungere quegli obiettivi che vede realizzati negli altri e che dunque il malessere consista nel non avere ciò che gli altri hanno. Si è lontani dal pensare che il malessere possa scaturire da una iniziativa della parte profonda di se stessi che vuole mettere in discussione questa modalità passiva di vivere che porta a paragonarsi agli altri cercando di somigliare a loro, facendosi così trascinare dentro forme di vita spersonalizzanti, che impediscono di sviluppare la propria identità, di dare forma al proprio progetto. L’interiorità solleva con forza la questione perchè dentro questo adeguamento passivo allo standard la persona è assente, perchè non fa vivere il nucleo profondo della sua soggettività.
In questo continuo paragonarsi agli altri la persona si sente inadeguata, manchevole, fuori dagli standard usuali. Questi vissuti possono essere ancora più intensi quando la persona pensa di avere tutto per poter essere felice, perché ha raggiunto quegli obiettivi che tutti dovrebbero conseguire e che lei, a detta di chi la circonda, ha la fortuna di possedere, ma non riesce a goderne perché la sua sofferenza glielo impedisce. Anche in questi casi la spiegazione è sempre la medesima, alla base ci sarebbe una incapacità di godere delle cose come gli altri sanno fare, un anomalo modo di sentire e di reagire generalmente ricondotto a delle cause infantili. Nulla viene collegato al fatto di non aver costruito la propria vita su delle basi proprie ma inseguendo ciò che esternamente viene ritenuto lo standard, per non essere da meno degli altri, con tutti i vuoti esistenziali che questo atteggiamento ha generato nella propria esistenza e che la sofferenza cerca di segnalare per dare l’opportunità di colmarli. Quando il proprio sentire non si accorda con la gioia, la soddisfazione che una situazione apparentemente auspicabile dovrebbe suscitare, perché a pieno titolo rientra nei canoni della normalità, scatta l’allarme, s’affaccia subito il pensiero terribile di non essere normali, di star scivolando in un territorio pericoloso che condannerà alla sciagura. Questo allarme s’accompagna ad un atteggiamento di controllo, con interventi di tipo “correttivo” sulla propria esperienza interiore che cercano di indirizzarla, forzarla e manipolarla nella direzione del modello ritenuto adeguato, come si pensa debba fare lo psicoterapeuta aggiustando il guasto che impedisce il funzionamento corretto. In non pochi casi questo controllo assume una forma ossessiva in cui ci si monitora e controlla ripetutamente nel proprio modo di sentire e di reagire per cercare di capire se si è normali o per scongiurare evoluzioni pericolose perché fuori dal recinto di ciò che dovrebbe scorrere in un certo modo, correttamente, normalmente. Può inoltre prendere la forma rigida dell’obbligo di apparire normali facendo le cose che fanno tutti seguendo un’agenda prestabilita in base alla quale ad ogni età bisogna fare una certa cosa e lo svolgersi di questi eventi garantirebbe il proprio star bene. La persona pensa che questo “programma” sia il frutto di quello che scambia per un suo bisogno, in realtà è dettato dalla necessità di apparire in un certo modo agli occhi degli altri e dalla credenza collettiva che fare le cose che normalmente si fanno a quell’età sia ciò che fa stare bene, mentre il mancato raggiungimento di questi obiettivi condannerebbe all’infelicità.
Tutto questo è il frutto di un modo di pensare collettivo che associa all’idea di normalità un’accezione prettamente positiva, identificando in essa un’idea di benessere, di protezione, di serenità. La normalità in questa accezione, che la persona assume in maniera del tutto acritica, senza riflessione, è una sorta di terra promessa che offre ogni bene, favorendo le migliori condizioni di sviluppo e di riuscita. La persona in un pensiero che non va oltre l’immediatezza, non divenendo mai riflessivo, pensa che ciò che “funziona normalmente” la farà stare bene e farà andare bene le cose. Quello della normalità è un valore assoluto, condiviso e dato per scontato, che rimane ancorato a un pensiero concreto, immediato senza mai raggiungere il livello della riflessione, di una elaborazione profonda, l’unica che è capace di vedere al di là di queste forme apparenti e illusorie. Quando si parla di normalità il pensiero è particolarmente scontato, immediato perché la normalità è connessa a un’idea rassicurante, la persona si sente minacciata all’idea di perdere questa condizione. Solo una elaborazione profonda, che si porti oltre l’immediatezza, nel piano simbolico, attraverso i sogni, può rivelare come veramente stanno le cose, quali sono le vere minacce e quali le pseudo protezioni che la persona crede di darsi. Il pensiero immediato, aderente alle credenze collettive, separa la normalità, come fonte di ogni bene, da ciò che fuoriesce dal suo recinto, ritenuto la fonte di ogni male.
Tutto ciò che si allontana dal recinto della normalità, quando preme interiormente come modo dissonante di sentire rispetto all’andamento ritenuto corretto è dunque visto come minaccioso, nemico, ostile, a maggior ragione se prende la forma di un sintomo, nel qual caso diventa il male assoluto da dover debellare. L’esperienza interiore che inizia a farsi tribulata, assumendo una forma che non si riesce a decifrare perché non ricollegabile a quanto detto e pensato nel recinto della cosiddetta normalità, appare spaventosa. Mentre l’esperienza che sembra andare nella direzione “normo-funzionante” sembra promettere ogni bene, l’esperienza che comincia a discordare da questo andamento sembra non promette nulla di bene, ma esporre solo al pericolo. Questo territorio che non è contenuto dentro i limiti del consueto e dell’abituale viene dipinto in modo estremamente stereotipato, come se fosse il segnale di qualcosa di patologico, asociale, individualista, stravagante o, peggio, una terra senza speranza in balia di forze oscure, senza una logica, che porteranno alla deriva. Fondamentalmente si stigmatizza e si stereotipizza quello che si ignora, come la propria esperienza interiore quando dà segnali che non si accordano con il “programma” che si ha in testa, copia e riproduzione di quello che prevede l’abituale svolgersi delle cose. Ci si chiude completamente di fronte a un’esperienza disagevole che non si sa comprendere e la si dipinge in un modo grossolano e stereotipato perché non si capisce il suo significato, finendo per trattare la propria esperienza interiore come un mostro assurdo e illogico che condurrà alla distruzione. Quel mostro, in realtà, è il nucleo più profondo e vivo del proprio essere, ciò che di più vicino e protettivo si possiede e la direzione che sta cercando di imprimere con le sue spinte vigorose, quando impegna dentro un’esperienza interiore difficile da decifrare perché fuoriesce da ciò che si è abituati e che si ritiene normale, è quella di ricondurre la persona a se stessa. Non è una mina impazzita che diverge dalla normalità esponendo a dei rischi, ma la dimensione interiore di se stessi che in modo estremamente intelligente sta tentando di far compiere alla persona un processo di maturazione psicologia, che prevede il suo differenziarsi dal pensiero comune per formare una sua identità, per far maturare il suo potenziale, con la finalità di darle una forte stabilità interna e coesione con se stessa.
Quando l’interiorità si esprime attraverso il disagio cerca di mandare dei segnali che sono protettivi perché la persona si è sbilanciata troppo fuori di sé perdendo il contatto con se stessa e questo è il vero pericolo, lì è veramente persa e a rischio di deriva psicologica. La persona prende realmente la tangente quando perde il contatto con se stessa e non ha una base solida dentro di sé. In questa condizione di profondo sbilanciamento si aggrappa al fuori con comportamenti che possono diventare estremamente problematici, che però non vengono riconosciuti come tali perché se rientrano nei modi di vivere cosiddetti normali la regola è dirsi che “tutto va bene” negando qualsiasi criticità. E’ la grande mistificazione della normalità che vuole occultare tutto il malessere sotteso al non aver dato forma alla propria soggettività, con le pesanti implicazioni che ne derivano su se stessi e sui rapporti. Andare dallo psicoterapeuta dovrebbe rappresentare la possibilità di spostare il proprio baricentro verso il mondo interno laddove tutto è stato esteriorizzato, ritrovando l’unità con se stessi che è stata persa. Andare dallo psicoterapeuta dovrebbe dunque significare una apertura al proprio mondo interiore, emotivo, il prenderne familiarità e capire che non è oscuro e minaccioso come si pensa.
Purtroppo ciò che prevale è l’atteggiamento di correzione e di normalizzazione nei confronti della propria esperienza interiore per rendersi sempre più adeguati alla norma, invece di andare nella direzione di favorire lo sviluppo della propria personalità e del proprio potenziale come il disagio sta chiedendo a gran voce. Si va dallo psicoterapeuta per farsi aggiustare e plasmare sul modello comune invece di trovare la propria identità, facendo un lavoro su se stessi che permetta di costruire un rapporto con la propria interiorità dandosi così delle solide basi di autonomia e sicurezza personale. Questo atteggiamento oltrechè fraintendere le vere ragioni del proprio malessere accentua tutto un atteggiamento di controllo nei confronti di se stessi che si estremizza, perché tutto deve essere controllato, tenuto a bada e incanalato nel verso cosiddetto normale. Si esaspera tutto il controllo che la persona esercita su se stessa e sulla sua esperienza interiore quando il suo sentire la porta in un territorio di incertezza, che ai suoi occhi rappresenta la minaccia di fuoriuscita dalla cosiddetta normalità, che cerca di salvaguardare e ripristinare pensando che sia la base del proprio benessere. La psicoterapia in troppi casi, ponendosi come obiettivo il rendere la persona più conforme al modello comune, diventa l’ennesimo tentativo di controllo, invece di rappresentare, come è fondamentale che sia, la possibilità di allentarlo alimentando la fiducia nei confronti di ciò che si muove dentro di sé, anche quando diventa particolarmente tortuoso e sofferto, perchè lungi dall’essere una minaccia da temere e controllare, rappresenta la strada per darsi garanzia di sviluppo pieno delle proprie potenzialità costruendo le migliori condizioni per realizzarle…