Le relazioni che consumano

Le relazioni che consumano

La relazione può arrivare a consumare, ma è difficile riconoscere questa condizione di sofferenza, tutt’altro che rara, perché la relazione è talmente associata all’idea che sia l’altro “a dare tutto” da essere descritta in termini idilliaci anche quando dà segnali estremamente critici. Il paradigma di fondo, assunto come se fosse una legge universale, è che sia l’altro a fornire dall’esterno la felicità, il senso di realizzazione, la vitalità, mentre dentro se stessi non ci sarebbe che il nulla. L’altro viene investito di un potere quasi salvifico, è l’onnipotenza buona che può dare tutto, al di là di ogni dato di realtà. L’altro non può essere tale se non in un rapporto di dipendenza filiale, in cui ci si pone nella relazione come il bambino che è ancora privo del senso di sé come soggetto dotato di una propria realtà interiore e vive la madre come colei che detiene la vita affettiva, la media, la alimenta. Come il bambino sposta sulla madre qualcosa che in realtà è dentro se stesso, ma che ancora deve recuperare a sé come capacità autonoma, così in molti rapporti si demanda all’altro la capacità di alimentare la propria vita emotiva, a partire dal senso di sé, e così lo si idealizza innalzandolo a principio generativo di tutto.

La crescita di un individuo, per potersi verificare, richiede alla madre di abdicare dal suo potere, o meglio dal suo bisogno di sentirsi necessaria, mentre il figlio, per rendersi autonomo, deve cominciare ad esercitare il suo potere di autogoverno, e per farlo occorre che riconosca dentro di sè la sorgente della vita emotiva e la capacità di entrare in rapporto con essa per trovare le soluzioni al suo esistere. L’esercizio di questa capacità di autogoverno richiede una maturazione psicologica perché non consiste più nel cercare risposte pronte, immediate, fuori di sé, il latte materno immediatamente a disposizione, ma consiste nel coltivare la propria dimensione interiore, che ha la capacità, se nutrita, di alimentare il senso di sé e della propria realizzazione come individui. Nelle relazioni che consumano invece vi è la riproposta di questo modello madre-figlio, in cui l’uno ha il bisogno di sentirsi indispensabile e l’altro vi si appoggia nell’idea che lo possa salvare dandogli una soluzione pronta, come se fosse un seno a sua disposizione, in una relazione d’accudimento. Nessuno può salvare l’altro se non dentro una idealizzazione, in cui si viene investiti di un potere che in realtà non si possiede e che rappresenta l’aspettativa dell’altro di trovare una soluzione esterna, magica ai suoi problemi esistenziali, che possono trovare risposte solo se si fa carico di se stesso, alimentando il rapporto con la sua dimensione interiore. In questa idealizzazione si nasconde l’atteggiamento di delegare la responsabilità della propria vita all’altro, la difficoltà nel far nascere e crescere il nucleo della propria soggettività, sostenendone il carico. Si preferisce continuare a vedere nell’altro ciò che in realtà è proprio, conferendogli il potere di salvare la propria esistenza, dandole un senso di realizzazione e di compimento, invece di farsi carico di se stessi.

Quello di poter realizzare la propria esistenza è un potere che in realtà è solo dentro di sé ma che spesso non si esercita e non si sviluppa perché si teme il crescere come responsabilizzazione nei confronti di se stessi. L’altro non ha questo potere ma è solo investito di una aspettativa, della richiesta del tutto illusoria e fallimentare di poter riempire i propri vuoti esistenziali. Una richiesta che diventa spesso la pretesa che l’altro faccia quello che non si è chiesto a se stessi di fare con la conseguenza inevitabile che la relazione sarà dominata da questo bisogno irrisolto della persona che vivrà l’altro come il tentativo di compenso al mancato raggiungimento di un maturo equilibrio nella stima di sè. E’ fondamentale far crescere qualcosa di proprio, corrispondente a sé, in assenza del quale il proprio bisogno di sentirsi soddisfatti di ciò che si è non sarà soddisfatto e si cercherà attraverso l’altro il modo di sentirsi utili e importanti, vivendo la relazione non come l’incontro con un altro soggetto ma come il tentativo di colmare la carenza della realizzazione di una immagine di sé stimabile. E’ l’adulto che chiederà all’altro di riempirlo, trattandolo come un seno sempre a disposizione che lo faccia sentire indispensabile e importante. Questa è proprio la base su cui nascono le relazioni che consumano, in cui l’uno vedrà nell’altro l’oggetto che lo cura, lo guarisce e lo rassicura e l’altro si sentirà utile e importante in questo ruolo salvifico, di cura. Nessuno dei due si occuperà dei problemi esistenziali che ha con se stesso, infatti una relazione di questo tipo serve ad entrambi per fuggire dai nodi esistenziali problematici della propria esistenza. L’uno delegherà completamente all’altro la cura di sé, in un rapporto d’accudimento, invece di affrontare i propri problemi personali, facendosene carico, e chi si mette nel ruolo accudente, a sua volta si occuperà dei problemi dell’altro proprio per non occuparsi di se stesso. La persona sarà disposta a mettere in secondo piano i suoi bisogni, dando centralità a quelli dell’altro, fino ad annientarsi, in un modo che non è utile a nessuno dei due, per non fare i conti con se stessa, tentando di compensare attraverso l’altro il senso di incompletezza del proprio essere, che ha lasciato senza progettualità, disinvestendo da se stessa.

La persona alienando da sé la capacità di essere autonoma e di poter sviluppare da sé qualcosa di cui sentirsi soddisfatta, non riconoscendo questa capacità creativa come una parte di se stessa, corrispondente alla sua parte interiore, la demanda all’altro e dunque vive l’altro come una parte di sé, in modo fusionale. L’altro diventa illusoriamente quella parte mancante della sua personalità che non ha fatto sviluppare e di cui si sente priva. Questa visione fusionale di sé e dell’altro glielo fa percepire non come un individuo separato da sé ma come qualcosa di indispensabile, da cui non si può separare, con tutti i vissuti soffocanti e travalicanti i confini personali che ciò comporta. L’altro viene messo su un piedistallo come se fosse l’essere supremo e indispensabile, colui che è capace di fare e di dare tutto, senza il quale si pensa di non poter badare a se stessi, talvolta concretamente, più spesso emotivamente, non credendo di poter trarre da sé il senso della propria esistenza. In questa visione totalizzante dell’altro la persona si priva di qualsiasi senso di forza, perché crede di non essere in grado di potersi sostenere, che la sua vita sia criticamente legata all’altro, quasi fosse una sua appendice, invece di vedersi come un individuo separato e capace di una vita autonoma. Questa visione di sé provoca spesso delle angosce molto forti anche solo all’idea di perdere l’altro e questo si ripercuote nella relazione perché la persona diventa estremamente apprensiva nei confronti dell’altro, a volte controllante e possessiva.

E’ una visione sbilanciata in cui la persona non percepisce più le sue risorse, la possibilità di dare sviluppo alle sue capacità, mentre l’altro viene “caricato” di ogni aspettativa. Sono relazioni che indeboliscono, consumano, perché colui che si ritiene essere indispensabile, in realtà si sostituisce all’altro, prende il posto di qualcosa di suo, che così non riesce a svilupparsi perché gli è stato demandato. Il riempire è in realtà uno svuotare sempre di più, perché le proprie capacità autonome, la propria capacità di alimentare la propria vita emotiva e di entrare in rapporto con essa, la propria capacità di cura di sé, vengono tutte sottratte a se stessi, portate fuori e delegate all’altro, che sostituendosi a queste capacità autonome lascerà sempre più indeboliti. Sono relazioni in cui sono presenti dei vissuti di mancanza, che però non vengono riconosciuti come vuoti di sé, ma vengono fatti risalire a mancanze dell’altro nel rapporto, che a sua volta lamenterà una mancanza di riconoscenza nei suoi confronti, in dinamiche che potranno diventare sempre più recriminatorie. Tutte queste dinamiche vengono spesso mistificate “in nome dell’amore”, senza riconoscere il vero nucleo del problema, che rischia dunque di trascinarsi fino a quando non si riprende su di sé la responsabilità della propria vita, del proprio malessere, cercando la cura non nell’altro ma in un percorso che conduca a riscoprire dentro di sé le proprie capacità, le parti inespresse della propria personalità, sviluppandole e portandole a maturazione…

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