Come sto trattando me stesso? Come sto entrando in rapporto con me stesso? Come mi sto rapportando ai miei stati interiori e al mio disagio? Queste domande riflessive sono fondamentali affinchè la psicoterapia possa favorire l’incontro e il rapporto della persona con la sua dimensione interiore. Il disagio psicologico, come per esempio l’ansia o altri stati interiori sofferti, parlano del rapporto, indicano una condizione in cui la persona è slegata da se stessa, è priva della solidità del rapporto con se stessa. Leggere il disagio psicologico al di fuori del rapporto che la persona ha con se stessa è perpetuare uno stato psicologico di scissione, è perpetuare l’atteggiamento che sta creando la sofferenza. Il sintomo è finalizzato proprio a ricostruire il legame e l’unità tra la persona e la sua dimensione interiore. Il rapporto deve dunque entrare nella dimensione analitica e questo è possibile solo se la psicoterapia trova il suo fondamento nella riflessione, nella persona che entra in rapporto con se stessa guardandosi nei suoi vissuti come in uno specchio che le restituisce qualcosa di sè, trovando la corrispondenza tra ciò che si è svolto nella sua vicenda esistenziale e le parti di se stessa che in essa hanno agito, ritrovando così parti della sua personalità mai esplorate, dimenticate, sconosciute, a volte spiacevoli, a volte inespresse, ma sempre risorse interiori capaci di portare allo sviluppo della sua personalità.
La persona fatica a vedere i collegamenti tra la sua vicenda esistenziale e ciò che di sé in essa si è espressa, la narra come se fosse una successione di fatti in cui hanno agito dei fattori esterni, eventi, persone, che avrebbero determinato tutto, invece di scorgere ciò che è accaduto dentro di lei e che si è espresso nella vicenda esterna, che dunque rispecchia qualcosa di interno, di suo. Non c’è qualcosa di esterno che è la causa deterministica di tutto ma c’è qualcosa di interiore che si è espresso all’esterno, a partire dai suoi sintomi che parlano di lei, fanno vedere delle cose di lei e sono mossi da un’esigenza interna di chiarimento circa alcuni aspetti di sé e della propria vita. In tal senso il sintomo, che nasce da un’iniziativa della sua dimensione interiore, le rende riconoscibile qualcosa di suo che ancora non riesce a vedere e di cui ha bisogno di prendere consapevolezza. La psicoterapia è fondamentale che favorisca questa possibilità di contatto con qualcosa di riconoscibile come proprio, in cui specchiarsi e rispecchiarsi, e non l’alienazione del sintomo vissuto come qualcosa di estraneo e determinato da altri.
Per capire l’importanza di riconoscere se stessi nella propria vicenda esistenziale basti pensare che spesso la persona comincia un percorso analitico avendo vissuto senza sapere cosa gli appartiene veramente, cosa è parte di sè, plasmandosi più su dei modelli esterni che dando forma alla sua soggettività. Quest’ultima può nascere solo se la persona recupera a sé i suoi vissuti emotivi, a partire dai suoi sintomi, se li recupera come parti di se stessa con cui entrare in rapporto, se vede in essi una possibilità di un confronto e di un incontro con se stessa sui temi salienti della sua vita. Se continua a estraniarsi in discorsi teorici che la portano fuori dal rapporto che ha con se stessa, che non gli permettono di riferire a sé e dunque di entrare in rapporto con la sua dimensione interiore, non può recuperare ciò che le appartiene veramente. Scoprire la propria soggettività significa poter entrare in rapporto con qualcosa di proprio, prendere contatto con se stessi a partire dal vedersi parte attiva nella propria vicenda esistenziale. Significa vedere se stessi nei propri vissuti, vedere in essi ciò che è proprio, ciò che è parte di sé. Il ritrovare se stessi, il vissuto di sé come soggetto, coincide con il riferire a sé la propria vicenda interiore invece di attribuirla a delle cause esterne utilizzando delle spiegazioni teoriche di natura causalistica-meccanicistica. Se nel discorso la persona continua a trattarsi come un oggetto la cui vita è stata determinata da altri a cui attribuire la propria sofferenza e non come soggetto attivo che ha fatto delle scelte, che ha costruito la sua vita su delle basi che l’hanno portata a soffrire, non potrà mai compiere quel passaggio di riappropriazione di sé, rimarrà divisa da sé, estraniata dalla sua stessa vicenda esistenziale in cui non riconoscerà la sua presenza.
C’è un equivoco di fondo largamente diffuso, che nasce da un approccio teorico invece che dall’esperienza viva, analitica di se stessi, che è quello di pensare che vedere il ruolo attivo che si è avuto nella propria vicenda esistenziale significhi colpevolizzarsi inutilmente. Nella pratica le cose sono completamente diverse, tant’è che questo assunto teorico andrebbe rovesciato comprendendo quanto danno si reca a se stessi nel non vedere cosa c’è di sé nei propri vissuti perchè questo comporta privarsi della possibilità di entrare in contatto con il proprio mondo emotivo. Riuscire a vedere la propria parte attiva nei propri vissuti significa infatti poter entrare in rapporto con se stessi dandosi la possibilità di cominciare a sentire il contatto con qualcosa di proprio. E’ l’apertura al dialogo e al confronto con il proprio mondo interiore, che è fondamentale per responsabilizzarsi sulla propria vicenda esistenziale. La dimensione del dialogo, del rapporto può essere recuperata solo se si è disposti a vedersi nel proprio agire come parte attiva e dunque come parte che prima di tutto deve chiedere ragione di sé a se stessa, domandandosi in termini riflessivi come è entrata in rapporto con se stessa, cosa ha fatto di sé e della propria vita, come si è condotta nella sua vita.
Vedere la propria parte attiva è altresì essenziale quando si è invischiati in relazioni problematiche, che generano sofferenza e dalle quali non si riesce ad uscire. Questo non risulta infatti possibile fino a quando non si vede cosa c’è di proprio nella relazione, il proprio ruolo, la propria parte attiva. Fino a quando ci si considera solo in termini vittimistici, senza vedere cosa c’è di sé che tiene legati all’altro, non si può che rimanere fatalmente invischiati o ripetere con altri la stessa dinamica. Non ci si lega casualmente con una certa persona, ma c’è qualcosa di se stessi che alimenta una certa dinamica con l’altro e che è pertanto importante riconoscere. La persona ha dunque bisogno di prendere consapevolezza di alcuni aspetti di sé, entrando in rapporto con se stessa, perché è questo qualcosa di suo che la tiene legata all’altro in un modo che può essere estremamente problematico. La riflessione è dunque lo strumento fondamentale per poter incidere nella propria vita, per riprenderla in mano anche quando si è nelle condizioni più difficili…