Il giudizio dell’altro diventa fonte di paura quando il senso di sé, del proprio valore, è così vincolato a quello che pensa l’altro da subire un vero e proprio crollo nel caso di un giudizio negativo o di un rifiuto, anche solo immaginato. Questo crollo, questa angoscia di non sentirsi più nessuno al solo pensiero di sfigurare sono stati interiori che vogliono segnalare che il senso di sé è dipendente dallo sguardo dell’altro perché è stato fondato su di esso e non autonomamente su qualcosa di costruito a partire da sé. La persona non può contare su qualcosa di proprio perché invece di cercare l’intesa e il legame con se stessa si è sempre proiettata fuori a cercare il consenso dell’altro, anche a costo di minacciare il nucleo profondo della sua identità che è stato sostituito dall’immagine riflessa negli occhi dell’altro. La persona vive di questo riflesso, di come la guarda e la fa sentire l’altro, il suo valore è vincolato a questo sguardo. E’ l’altro a darle senso, scopo, valore, apprezzandola e giudicandola bene. La persona in questo modo dipendente di vivere non chiede a se stessa di costruire un senso di sé su delle basi proprie, percependo il suo valore in ciò che può sviluppare e portare a maturazione coltivando ciò che ha dentro di sè, ma chiede all’altro di darle senso e significatività. Si appoggia all’altro nella costruzione della propria autostima invece di fondarla su ciò che ha la possibilità di costruire con se stessa alimentando il rapporto con la sua interiorità, una dimensione che spesso trascura e lascia disabitata.
La persona non è infatti investita su di sé, nella costruzione di qualcosa che le corrisponda profondamente, ma è nello sforzo continuo di piacere all’altro, plasmandosi sulle sue aspettative, finendo così per puntare tutto sul consenso e non sullo sviluppo del suo autentico potenziale. Il rischio che il suo potenziale non fiorisca è conseguenza del fatto che nello sforzo di piacere la persona costruisce un’identità di superficie che si allontana da quella profonda per aderire a dei requisiti esterni di riuscita. Questo la porta a non avere un’immagine di sé autonoma ma a vivere dell’immagine che le restituisce l’altro, spesso distante da se stessa perché è stata modellata sul dover piacere e risultare brava ai suoi occhi. La persona cerca di farsi convalidare dall’altro nel senso di sé e del suo valore aderendo a un modello, rivestendo un ruolo e in questo modo si allontana dalla sua autentica personalità, che non riesce a svilupparsi nelle sue potenzialità. Quando il senso di sé è stato costruito con questa modalità dipendente la persona vive nella paura di essere giudicata male, di perdere l’approvazione perché questo significa veder crollare l’idea che ha di sé, che è tenuta sù dall’altro invece di essere stata costruita autonomamente.
La persona pensa dunque di valere nella misura in cui viene apprezzata e voluta dall’altro e ciò la spinge a cercarne costantemente l’approvazione. Ha bisogno di questa approvazione perché è attraverso di essa che si convalida nel senso di sé e delle proprie capacità. Il piacere all’altro diventa il modo di dimostrare a se stessa che vale, cerca nella buona riuscita all’esterno una conferma del proprio valore. In quest’ottica dipendente il buon giudizio significa valere mentre il giudizio negativo si traduce nel sentirsi squalificati o peggio annullati visto che ci si sente vivi, validi, capaci solo attraverso l’altro e non attraverso ciò che si sta portando avanti nel rapporto con se stessi, spesso accantonato o del tutto abbandonato. Si cerca fuori l’attestazione del proprio valore dando prova di sè e in questo modo il rapporto con l’altro diventa il terreno in cui ci si misura, trasformando inevitabilmente la percezione dell’incontro con l’altro in un esame. Questo atteggiamento porta infatti a sentirsi sotto esame, spesso con la paura di essere “impreparati” perché si è consegnato integralmente all’altro lo stabilire che cosa vale o meno, non si ha più una visione autonoma di se stessi e delle proprie capacità. La dimensione della performance, della corsa a conseguire obiettivi ritenuti esternamente di valore diventa predominante rispetto alla scoperta dei propri interessi veri, del coltivarli e farli crescere all’interno del rapporto con se stessi. E’ l’apprezzamento dell’altro il terreno in cui la persona misura la sua realizzazione invece di valutarla in ciò che ha portato a compimento dentro di sé, a partire da sé. Non è nel confronto con se stessa che fa i bilanci della propria esistenza vedendo ciò che è riuscita a far vivere di sé, ma è la riuscita agli occhi dell’altro la misura del suo valore. Ciò la rende sempre più dipendente da idee di realizzazione estranee all’interiorità invece di diventare autonoma nella valutazione di ciò che vale e può dirsi realizzato.
La persona anzichè vivere il terreno interiore come quello della crescita, dello sviluppo, del progredire basa la sua autostima sulle buone prove date di sé, sul “voto” ottenuto. Crede fermamente che questo “indice di gradimento” decreti il suo valore anziché considerarlo solo una congettura, basata su dei criteri di valore esterni, mai verificati interiormente. In questo modo il giudizio dell’altro viene caricato di un’importanza che non possiede, come se fosse il giudizio universale, in un atteggiamento di totale dipendenza. Rimanere in questo atteggiamento dipendente è sterile, genera solo insicurezza, anche se sembra comodo visto che l’altro diventa a tratti una stampella di un’autostima vacillante, viceversa aprire il confronto con se stessi, anche se è più scomodo perché porta a vedere delle parti di sé ancora incompiute, è costruttivo, apre delle prospettive, permette di far vivere delle parti importanti di sé che sono rimaste schiacciate dentro questa logica esterna e non hanno ancora potuto esprimere tutto il loro potenziale…