Ansia: ascoltarla e non combatterla

Ansia: ascoltarla e non combatterla

L’ansia viene ritenuta comunemente qualcosa di negativo, fastidioso, disturbante. Il motto più diffuso è “combattere l’ansia” e, in accordo ad esso, si moltiplicano opuscoli d’ogni sorta che forniscono soluzioni per eliminarla. Questo fa comprendere, da un lato, la diffusione di questo disagio e, dall’altro, come si cerchi in ogni modo di contrastarlo. L’unica apparente concessione che viene fatta a questo stato d’animo è quella di ritenerlo una risposta difensiva utile ad affrontare una situazione di pericolo, però soltanto se non supera determinati livelli.

A tal proposito sono stati costruiti dei grafici che intendono spiegare come l’ansia sia utile fino ad un determinato livello, superato il quale diventi negativa, patologica, paralizzante. Viene detto che l’ansia è fisiologica fino a quando aumenta la performance, poi diventa eccessiva, svantaggiosa, perchè la riduce. Questa distinzione tra ansia fisiologica e patologica non fa che aumentare la confusione e il fraintendimento nei confronti della realtà interiore. E’ un modo di spiegare l’ansia che rivela quanto siamo lontani dall’interiorità e fatichiamo a comprenderne il linguaggio, finendo spesso per trattarla con mezzi inappropriati. E’ il risultato di una impostazione scolastica che cerca di spiegare l’ansia attraverso dei costrutti teorici, invece di incontrarla  nel contatto con la dimensione profonda, l’unica che può restituire senso a ciò che si sta provando.

L’ansia viene giudicata come qualcosa di negativo, che intralcia la persona, impedendole di continuare a fare quello che sta facendo. Viene vissuta come un ostacolo, un impedimento di cui ci si vorrebbe sbarazzare. Non è un caso che il grafico sopra menzionato avvalli questa mentalità: finchè l’ansia migliora la performance viene accettata, poi viene considerata come qualcosa di sfavorevole. La prospettiva andrebbe rovesciata, cominciando a chiedersi: “Cosa l’ansia mi impedisce di fare?”. Non è infatti un caso che l’ansia arrivi a bloccare, a paralizzare, lo fa con estrema saggezza nel momento in cui la persona non sta andando nella sua direzione, si sta allontanando da se stessa. L’ansia è un potente richiamo che costringe la persona a fermarsi quando sta percorrendo una strada che non le  appartiene. E’ pertanto protettiva, anche quando arriva a paralizzare, lo fa sempre con uno scopo che è  fondamentale saper ascoltare.

Questo allontanamento da se stessi può verificarsi in diverse situazioni, una di queste è quando la persona sente l’imperativo d’essere all’altezza di standard prestazionali, derivati da modelli esterni, che poco hanno a che fare con l’autentica natura dell’interiorità. Questo può verificarsi in diversi ambiti della vita, dove la persona cerca di dimostrare di corrispondere ad un’immagine ideale, costruita su metri di misura esterni. Conosce i modi comuni di valutare le cose e li applica a sé, non vuole disattendere queste aspettative. “Deve dimostrare” d’essere capace, riuscita, impeccabile, cerca di riprodurre un modello ritenuto vincente. L’interiorità ha una visione completamente diversa delle cose, quel modello ideale  non le appartiene, la limita. L’interiorità non vuole piacere, non vuole dimostrare, non vuole essere messa ai voti. Non cerca la performance, bensì l’autenticità. Sa bene che in quelle che vengono ritenute mancanze, lati oscuri, vuoti, ci sono le risorse che le consentono di svilupparsi.

E’ proprio attraverso questi passaggi, giudicati come difettosi, che può scoprirsi sempre di più, in ogni direzione, ampliando il suo sguardo sulle cose, riscoprendone i significati, finalmente sottratti ai modi comuni di pensare.  La sua meta non è il risultato esterno ma questo ampliamento progressivo dello sguardo, sempre più attento e rispettoso nei confronti di quello che interiormente si fa sentire, sempre più profondo, vivo, lungimirante. Tale sguardo, così affrancato, ci aiuta a vedere la nostra immagine autentica e non più quella ideale che ci siamo costruiti addosso per non disattendere le aspettative esterne, che abbiamo interiorizzato. Questo richiede una maturazione psicologica, che può svilupparsi soltanto dal contatto con il mondo interiore, in grado di comprendere che un tragitto in apparenza tortuoso, non costruito sulla linearità dei canoni prestabiliti, ma fedele ai tempi e ai modi dell’interiorità, è la vera fonte di arricchimento e di crescita. L’interiorità non vuole migliorare, nel senso di corrispondere sempre di più al modello esterno, ma vuole evolvere, attraverso trasformazioni che le consentano di corrispondere sempre più a ciò che intimamente le appartiene, così da essere fedele ai codici dell’interiorità e non ai metri di misura esterni.

L’ansia rappresenta una di queste trasformazioni, è un moto dell’anima che segnala che è in incubazione una trasformazione che vuole riconsegnare la persona a un’immagine più autentica di sé, più corrispondente al suo mondo interno. Combattere l’ansia significa dunque contrastare un processo generativo, togliendo alla persona l’unica risorsa in grado in quel momento di aiutarla. L’ansia la prende per mano e la blocca, per  riconsegnarla a se stessa. La persona la vive come una disgrazia, perchè è tutta tesa al suo obiettivo, che le sembra irrinunciabile, avendo consegnato tutto di sé all’esterno, ma l’interiorità vede bene che così facendo si sta chiudendo in una gabbia che la costringe, la limita.

Etichettare questo momento generativo come ansia patologica vuol dire fraintendere il linguaggio interiore e aumentare sempre più la confusione e la distanza da sé. La persona comincia infatti a definirsi un’ insicura, crede che il suo problema sia quello di non sentirsi all’altezza della situazione. Pensa di dover essere più forte, di doversi superare, e, così facendo, si irrigidisce ancora di più, aumentando le richieste nei confronti di se stessa in una direzione che non è la propria. Ad esacerbare il tutto intervengono frequentemente delle terapie che si pongono l’obiettivo di eliminare il sintomo per “migliorare il funzionamento” della persona, rinforzando ancor di più l’idea che il riconoscimento del proprio valore passa attraverso il conseguimento di risultati esterni. La mentalità è quella che vede la vita come una corsa volta a conseguire dei risultati prefissati. Si consolida sempre di più la convinzione che interrompere questa corsa, perdendo apparentemente terreno,  sia la cosa peggiore che possa capitare e si cementa l’imperativo del funzionare a tutti i costi.

Non si riesce a concepire che fermarsi, fare tappa, dare spazio alla dimensione interiore, sia quanto di più importante in quel momento possa capitare per poter recuperare un legame con sé ed evolvere. Laddove ci sembra di perdere, in realtà, ci stiamo arricchendo. Sterile sarebbe continuare ad andare a spron battuto in una direzione che non è la propria. Il fraintendimento nei confronti del linguaggio interiore emerge anche da un’altra definizione, frequentemente utilizzata, che è quella di ansia “immotivata”, irrazionale. Questo accade quando, senza un apparente motivo, arriva nella nostra vita un senso di inquietudine persistente che non ci dà pace. In alcuni casi può assumere la forma della paura che stia per capitarci qualcosa di brutto, a volte, quella della paura di morire, oppure uno stato continuo di tensione, di allerta. La persona la definisce immotivata perchè cerca la causa negli eventi esterni, ma non trova in essi qualcosa capace di spiegarla. E’ convinta che la sua vita consista soltanto nel susseguirsi di eventi, fatti. Ritiene che queste siano le uniche cose reali, importanti, mentre ignora completamente l’esistenza di una vita interiore. Riesce a concepirsi solo all’esterno, nelle cose che le accadono, e, non trovando in esse qualcosa capace di giustificare l’ansia, la taccia di essere immotivata, da eliminare.

Non riesce a concepire l’esistenza di una   dimensione interiore che, in realtà, è la forza vitale più potente che ci abita, lavora costantemente per realizzare la nostra vera natura, ciò che ci caratterizza nel profondo, vuole portare a maturazione ciò che siamo, come il seme che vuol far fiorire la sua pianta.  La dimensione interiore è, allo stesso tempo, una intelligenza profonda, sa cosa ci serve e cerca di guidarci in questa direzione. E’  quanto di più reale, autentico, saggio, possediamo. Quando noi la ignoriamo, la soffochiamo in nome di qualcosa che non ci appartiene, cerca in ogni modo di segnalarcelo, mandandoci dei sintomi, tra cui l’ansia. Questo stato di inquietudine è tutt’altro che immotivato, è un segnale che ci indica che siamo lontani da noi stessi, non stiamo esprimendo la nostra vera personalità, non stiamo facendo vivere ciò che è più vitale dentro di noi. La sensazione di pericolo ha una profonda ragion d’essere perchè stiamo minacciando alla radice la nostra esistenza.

Ci scuote alla radice per segnalarci che stiamo escludendo dalla nostra vita la parte essenziale di noi, quella profonda, non stiamo vivendo secondo i codici dell’interiorità. L’atmosfera di morte e di pericolo è lì a segnalarci che vivere senza questa parte è pericoloso. Il rischio più grande che l’uomo possa correre è quello di inseguire mete prestabilite, al di fuori di se stesso, senza accorgersi dei messaggi che l’interiorità gli invia attraverso i disagi. Ha pertanto un valore salvifico perchè spesso la parte superficiale della psiche, quella razionale, cerca di imporre le sue regole, le sue intenzioni, che prende dall’esterno, ma che l’interiorità rifiuta perchè non le corrispondono, la tradiscono in nome di qualcosa d’altro. La dimensione interiore vien messa a tacere, il sintomo può essere l’unico modo con cui essa può farsi sentire.  Al contempo esprime una immensa voglia di vivere, di evolvere, di manifestarsi con pienezza. Cercare di eliminare questo stato di allerta, senza ascoltarlo, priva pertanto la persona di una risorsa fondamentale, che ha in sé una spinta vitale essenziale, se si saprà cogliere il suo messaggio.

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